Di Nikolaus Suck
La sentenza della Corte di Giustizia del 16 marzo 2023 resa nella causa C – 517/20 ‘OL’ ha ad oggetto un tipico rinvio pregiudiziale interpretativo ai sensi dell’art. 267 TFUE, in cui il Giudice nazionale sottopone alla Corte dei quesiti relativi alla compatibilità o meno di una determinata disciplina nazionale con le norme ed i principi dell’ordinamento eurounitario.
Interviene nella materia della raccolta delle scommesse, in cui vengono in considerazione notorie e preminenti esigenze di ordine pubblico, sicurezza e legalità nonché di tutela elevata dei cittadini e consumatori in genere e delle fasce sociali più deboli e dei minori in particolare. In ragione di tali esigenze, la legge riserva l’attività di raccolta di scommesse allo Stato, il quale può affidarla in regime concessione a soggetti di accertata idoneità e probità selezionati (come è norma e regola per tutte le concessioni amministrative) con apposita gara pubblica (d.lgs. 14.4.1948, n. 496, artt. 1 e 2, e, per quanto di interesse specifico, r.d. 18.3.1931, n. 773, art. 88). Può parlarsi, in questo caso, di vere e proprie concessioni di
servizio pubblico con cui viene affidata a terzi un’attività economica riservata allo Stato (anche se, come si vedrà oltre, nel caso di specie tale qualificazione non è stata fatta e non è comunque risultata decisiva).
Al tempo dei fatti di causa le concessioni per la raccolta di scommesse allora in essere sarebbero dovute scadere il 30 giugno 2016 e si era in attesa del bando di gara per le nuove concessioni da aggiudicare, la cui pubblicazione sarebbe dovuta intervenire entro il 1° maggio 2016. Tuttavia, da un lato in vista di un riordino complessivo della disciplina dei giochi e delle scommesse (all’epoca previsto dalla legge 11.3.2014, n. 23) il legislatore italiano con le leggi di stabilità per il 2015 ed il 2016 (art 1, c. 643 l. 23.12.2014 n. 190 e art. 1 c. 926 l. 28.12.2015 n. 208) aveva introdotto un procedura di “regolarizzazione” provvisoria grazie a cui i c.d. centri di trasmissione dati privi di concessione alla data del 31 ottobre 2014 avrebbero potuto
continuare ad operare fino alla detta scadenza del 30 giugno 2016. E, da un altro lato, a fronte del ritardo nella pubblicazione del bando, non intervenuta entro il suddetto termine legislativo del 1° maggio 2016, in data 9 giugno 2016 l’Agenzia delle Dogane aveva adottato la invero curiosa circolare R.U. n. 54917 con cui, dato atto del ritardo e “al fine di garantire la continuità del servizio pubblico di raccolta dei giochi pubblici in ragione dei superiori interessi di ordine pubblico, erariali e di tutela occupazionale”, aveva ritenuto di consentire la prosecuzione dell’attività “fino alla pubblicazione del bando di gara” sia ai precedenti concessionari che ai soggetti provvisoriamente “regolarizzati” che si fossero impegnati formalmente alla partecipazione alla futura gara. Tale provvedimento ha, di fatto, introdotto una sorta di “proroga” in quel momento a tempo indeterminato del diritto a svolgere l’attività, non essendo nota la data in cui il bando di cui si era in attesa sarebbe stato pubblicato.
In tale contesto, un Giudice italiano nell’ambito di un procedimento penale avviato ben tre anni dopo nei confronti di un’impresa che raccoglieva scommesse per un allibratore austriaco senza una sottostante concessione o regolarizzazione ha rilevato che la suddetta “proroga”, in quel momento (e a tutt’oggi) ancora operativa, impediva l’accesso di nuovi operatori al mercato della raccolta delle scommesse. Pertanto, facendo riferimento direttamente ed esclusivamente agli articoli 49, 56 e 106 del TFUE sulla libertà di stabilimento e di prestazione di servizi e sull’applicazione delle regole di concorrenza alle imprese che esercitano diritti speciali, con tre quesiti ha chiesto alla Corte di stabilire se la descritta proroga delle vecchie concessioni e degli altri diritti di raccolta delle scommesse senza espletamento di un confronto concorrenziale fosse compatibile con tali disposizioni e se i principi da esse sanciti fossero di ostacolo ad una normativa nazionale di proroga delle vecchie concessioni. Con la sentenza del 16 marzo 2023 in commento, come era da attendersi – ed analogamente a quanto avvenuto in precedenza per le concessioni balneari con la nota sentenza del 14 luglio 2016 Promoimpresa (cause riunite C-458/14 e C-67/15) espressamente richiamata non una ma ben tre volte (Paragrafi 29, 32 e 45 sentenza) – la Corte di Giustizia ha risposto che anche in questo caso ed in questa materia “Gli articoli 49 e 56 TFUE devono essere interpretati nel senso che essi ostano ad una proroga delle concessioni nel settore dei giochi d’azzardo e dei diritti derivanti dalla regolarizzazione della situazione dei centri di trasmissione dati che già esercitavano, ad una certa data, attività di raccolta di scommesse a favore di allibratori esteri
non titolari di una concessione e di una licenza di polizia”. La Corte ha quindi confermato e riaffermato il principio già noto e stabilito secondo cui le proroghe generalizzate di qualsiasi concessione sono contrarie al diritto eurounitario ed incompatibili con lo stesso (cfr. in particolare i Paragrafi da 42 a 45, 48 e 56 della sentenza).
L’unica precisazione che la Corte si preoccupa di aggiungere rispetto al caso delle concessioni demaniali è che in quello della raccolta delle scommesse la proroga “può essere ammessa sulla base delle deroghe espressamente previste dagli articoli 51 e 52 TFUE” e “può essere giustificata segnatamente da motivi imperativi di interesse generale come l’obiettivo di assicurare la continuità di un controllo sugli operatori di tale settore al fine di garantire la protezione dei consumatori”, purché sia dimostrato che “sia idonea a garantire la realizzazione di tale obiettivo” senza andare “oltre quanto è necessario per raggiungerlo” (Paragrafi 49 e ss. sentenza OL). Questo in quanto, come ricordato all’inizio e come fatto valere dallo Stato Italiano nel corso del procedimento, la materia delle scommesse e dei giochi in genere è caratterizzata dalle ricordate esigenze preminenti di ordine pubblico, sicurezza, legalità e tutela elevata dei cittadini e consumatori da parte dello Stato, che per questo ha riservato a sé l’attività e ha previsto vere e proprie concessioni per l’affidamento del servizio a terzi, con penetranti controlli sui concessionari autorizzati. Anche qui però la Corte precisa non solo che qualsiasi deroga deve comunque rispettare i
principi di non discriminazione e di proporzionalità, ma anche che “l’attribuzione di concessioni sulla base di un nuovo bando di gara, da un lato, costituirebbe una misura meno restrittiva per le libertà fondamentali sancite dagli articoli 49 e 56 TFUE rispetto alla proroga suddetta e, dall’altro, non pare tale da compromettere la realizzazione di detto obiettivo” (Paragrafo 55 sentenza OL). Se ne conclude che la sentenza OL del 16 marzo 2023 non smentisce né supera, bensì semmai riafferma e conferma, la statuizione ed il principio della incompatibilità con il diritto eurounitario delle proroghe automatiche e generalizzate di qualsiasi tipo di concessione pubblica e del favore verso le gare, di cui già nella sentenza Promoimpresa del 2016.
Anzi, con la sentenza in commento tale principio risulta addirittura rafforzato nella sua portata generale. Infatti mentre nel caso Promoimpresa la sua affermazione passava per l’intermediazione della nota Direttiva 2006/123/CE sui servizi nel mercato interno (c.d. direttiva Bolkestein dal nome del suo relatore e non, per inciso, autore), nel caso oggi esaminato si nota che sia i quesiti pregiudiziali del Giudice del rinvio che la risposta data della Corte con la sentenza si fondano direttamente ed esclusivamente sull’efficacia e l’applicazione degli articoli 49 e 56 del Trattato e dei principi ivi previsti, senza alcun riferimento ad atti di diritto derivato. Se ne ricava che per l’operatività del principio in realtà non occorre necessariamente passare
né per siffatti atti di diritto derivato, né per la loro attuazione a livello nazionale. Il che, con particolare riguardo alla materia delle concessioni demaniali marittime, sta a significare che l’efficacia diretta o meno della Direttiva Bolkestein ai fini dell’assoggettamento delle concessioni all’evidenza pubblica, tema nuovamente sollevato da ultimo nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale del TAR Lecce n. 743 dell’11 maggio 2022 su cui si attende la decisione, è a ben vedere largamente irrilevante e costituisce un “falso problema” (uno dei tanti). La sentenza OL del 16 marzo 2023 conferma che la illegittimità di qualsiasi proroga generalizzata e la necessità dell’espletamento di procedure ad evidenza pubblica per la selezione dei concessionari discendono direttamente dal Trattato. E infatti al paragrafo 32 (su cui torneremo in conclusione) la Corte a scanso di equivoci, e riprendendo e citando il paragrafo 64 della sentenza Promoimpresa, precisa che in ogni caso “le autorità pubbliche, ove
intendano attribuire una concessione che non rientra nell’ambito di applicazione delle direttive relative alle varie categorie di contratti pubblici [che si tratti della Direttiva Bolkestein sui servizi economici, della Direttiva 2014/23/UE sulle concessioni di servizi pubblici, di quelle sugli appalti, o di altro, NdR], sono tenute a rispettare le norme fondamentali del Trattato FUE in generale e il principio di non discriminazione in particolare (sentenza del 14 luglio 2016, Promoimpresa e a., C‑458/14 e C‑67/15, punto 64 nonché la giurisprudenza ivi citata)”.
E’ vero che la sentenza in commento, nel descrivere il “contesto giuridico” di riferimento, menziona anche il considerando 15 e l’art. 5 della Direttiva 2014/23/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione di lavori e servizi pubblici e sulla necessità di distinguere tali contratti da altre fattispecie contrattuali. Ma tale riferimento, peraltro già contenuto anche nella sentenza Promoimpresa del 2016 (Paragrafi 7, 45 e 48), non mette in discussione nulla di quanto precede, sia perché non è fatto per rispondere ai quesiti pregiudiziali che non ne sono riguardati, sia perché la direttiva in questione e i suoi contenuti non
hanno nessuna attinenza con la materia delle concessioni demaniali turistico-ricreative ma riguardano tutt’altro.
Infatti il detto riferimento alla Direttiva 2014/23/UE ed alla definizione dei contratti di concessione dalla stessa disciplinati non serve alla Corte per rispondere al giudice del rinvio sulla sostanza dei quesiti, ma solo per preliminarmente disattendere le osservazioni di uno dei governi intervenuti nel procedimento pregiudiziale. In particolare quello belga aveva sostenuto la irricevibilità dei quesiti pregiudiziali per ritenuta erronea individuazione da parte del Giudice rimettente delle norme da applicare, che ad avviso di quel governo sarebbero state non gli articoli 49, 56 e 106 TFUE bensì appunto la Direttiva 2014/23/UE
sull’aggiudicazione dei contratti di concessione di lavori e servizi pubblici (cfr. Paragrafo 22 sentenza OL).
Ma la Corte supera tale argomentazione, affermando che “il fatto che il giudice del rinvio non dimostri che la direttiva 2014/23 non si applica ai fatti oggetto della controversia nel procedimento principale non è suscettibile di rimettere in discussione la ricevibilità delle questioni sollevate, che vertono, segnatamente, sull’interpretazione degli articoli 49 e 56 TFUE” (cfr. Paragrafo 26 sentenza), e che “la Corte non dispone di elementi da cui risulti, da un lato, che le concessioni e i diritti prorogati accordati in virtù delle leggi n. 190/2014 e n. 208/2015 nel settore dei giochi d’azzardo in Italia costituiscono concessioni di servizi ai sensi dell’articolo 5, punto 1, lettera b), della direttiva 2014/23, e non accordi aventi ad oggetto il diritto di un operatore economico di esercitare un’attività in tale settore, mediante i quali la Repubblica italiana fissa unicamente le condizioni generali di esercizio di tale diritto, senza acquisizione di servizi specifici…. Pertanto, non si può escludere che la direttiva 2014/23 non si applichi a tali concessioni e a tali diritti” (cfr. paragrafi 30 e 31 sentenza).
In altre parole, poiché i quesiti pregiudiziali sollevati dal Giudice nazionale si rifanno agli articoli 49, 56 e 106 TFUE e non risultano né sono stati portati in giudizio elementi per stabilire se le concessioni di raccolta delle scommesse dello Stato italiano siano vere e proprie concessioni di servizio pubblico così come definite dall’art. 5 della Direttiva 2104/23/UE ai fini della sua applicazione, o contratti di tipo diverso (non importa, peraltro, quali – v. infra), ai quesiti pregiudiziali si può e deve rispondere, e lo si può e deve fare applicando appunto le norme del Trattato ed i principi che ne discendono. Che sono quelli di cui ai paragrafi 42 – 45, 48 e 56 della sentenza, di cui si è dato conto più sopra. Altri fini ed altra o ulteriore portata, diversi dall’aver voluto rispondere alle osservazioni del governo belga nei termini anzidetti, il richiamo in sentenza della Direttiva 2014/23/UE e del suo considerando 15 non ne ha.
In particolare, e diversamente da quanto riportato in alcune notizie di stampa pubblicate immediatamente a ridosso della sentenza OL del 16 marzo 2023, non sembra possibile ritenere che con tale sentenza Corte di Giustizia avrebbe dato indirettamente ragione ai concessionari demaniali e al Governo e al Parlamento sulla proroga delle concessioni in essere, rettificato la sentenza Promoimpresa, e addirittura anticipato i termini della decisione sul rinvio pregiudiziale da parte del TAR Lecce del 2022, prevista per il 20 aprile 2023.
Tali opinioni risulterebbero imperniate in particolare sul paragrafo 29 della sentenza OL, secondo cui “Ai sensi dell’articolo 5, punto 1, lettera b), della direttiva 2014/23, costituisce una concessione di servizi un contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto in virtù del quale una o più amministrazioni aggiudicatrici o uno o più enti aggiudicatori affidano la fornitura e la gestione di servizi diversi dall’esecuzione di lavori di cui alla lettera a) del medesimo articolo 5, punto 1, ad uno o più operatori economici, ove il corrispettivo consista unicamente nel diritto di gestire i servizi oggetto del contratto o in tale diritto accompagnato da un prezzo. Per contro, taluni accordi aventi ad oggetto il diritto di un operatore economico di gestire
determinati beni o risorse pubblici, in regime di diritto privato o pubblico, come dei terreni, mediante i quali lo Stato fissa unicamente le condizioni generali d’uso dei beni o delle risorse in questione senza acquisire lavori o servizi specifici, non dovrebbero – come risulta dal considerando 15 della citata direttiva – essere qualificati come «concessioni di servizi», ai sensi della direttiva 2014/23 (v., in tal senso, sentenza del 14 luglio 2016, Promoimpresa e a., C458/14 e C67/15, EU:C:2016:558, punto 48)”.
Ma il contenuto del paragrafo in questione – che corrisponde a parte del Paragrafo 48 della sentenza Promoimpresa, non a caso espressamente citato e richiamato – si pone in perfetta continuità con tale sentenza e le sue argomentazioni, rispetto a cui non si ravvisa alcuna contraddittorietà o riconsiderazione. Infatti, riprendendo (al pari della sentenza precedente) il considerando 15 della direttiva 214/23/UE specificamente dedicata all’aggiudicazione di concessioni di lavori e servizi pubblici, vi si afferma che i “taluni [non tutti, NdR] accordi aventi ad oggetto il diritto di un operatore economico di gestire determinati beni o risorse pubblici, in regime di diritto privato o pubblico, come dei terreni, mediante i quali lo Stato fissa unicamente
le condizioni generali d’uso dei beni o delle risorse” non dovrebbero essere qualificati come concessioni di servizi specificamente “ai sensi della direttiva 2014/23” in questione, e solo di quest’ultima. Siffatti accordi non sarebbero quindi concessioni per l’aggiudicazione di lavori o servizi pubblici, ove il discrimine risiede nel fatto che con tali accordi non vengono acquisiti lavori o servizi specifici di spettanza dell’amministrazione, secondo la definizione dell’art. 5 della direttiva in questione.
Questo però non significa affatto che i “taluni accordi” in questione, anche se non sono concessioni di servizi pubblici dello Stato ai sensi della Direttiva 2014/23/UE, non siano e non possano essere considerati “concessioni di servizi” di tipo diverso, e segnatamente funzionali alla prestazione di servizi (non pubblici bensì) imprenditoriali privati resi sul mercato dietro corrispettivo, da aggiudicare anch’essi ad evidenza pubblica ai sensi ed in base ad altra disciplina ove ricorrano i presupposti individuati da quest’ultima. E quindi, in concreto, non esclude che, pur non rientrando nelle concessioni di cui alla Direttiva 2014/23/UE, possano comunque rientrare nelle concessioni comprese nei “regimi di autorizzazione” di cui ai considerando 39 e 57 ed all’art. 4, punto 6 della diversa Direttiva 2006/123/CE sui servizi di natura economica nel mercato interno, che includono appunto “le procedure amministrative per il rilascio di autorizzazioni, licenze, approvazioni o concessioni” e quelli in cui “l’accesso ad un’attività di servizio o il suo esercizio da parte di operatori richieda la decisione di un’autorità competente”.
Altrimenti detto, posto che la Direttiva 2014/23/UE disciplina la aggiudicazione di concessioni di lavori e servizi pubblici spettanti all’amministrazione, e la Direttiva 2006/123/CE la diversa materia delle concessioni per la prestazione sul mercato di servizi imprenditoriali privati dietro corrispettivo, la eventuale esclusione di “taluni accordi” (ammesso e non concesso, peraltro, che le concessioni demaniali marittime vi rientrino, cosa non affermata da nessuna parte e niente affatto scontata, v. infra) dalla prima Direttiva ai sensi del suo considerando 15 e del suo art. 5 non implica e non comporta affatto l’esclusione anche dalla seconda, e dalle diverse fattispecie che questa disciplina.
Un confronto coordinato delle due Direttive non fa che confermare quanto precede. Infatti, da un lato il considerando 14 della Direttiva 2014/23 (ben più significativo ed interessante del successivo considerando 15) precisa che non dovrebbero configurarsi come concessioni ai sensi di tale direttiva “determinati atti dello Stato membro, quali autorizzazioni o licenze, con cui lo Stato membro o una sua autorità pubblica stabiliscono le condizioni per l’esercizio di un’attività economica…” e che “Nel caso di tali atti dello Stato membro, si applicano le disposizioni specifiche della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio”, ovvero la Direttiva Bolkestein. Tale considerando quindi distingue le concessioni di servizi e lavori dalle concessioni e autorizzazioni per lo svolgimento di attività economiche, cui si applica la direttiva specifica, ovvero la Bolkestein 2006/123. E dall’altro lato il già citato considerando 57 di tale ultima direttiva specularmente precisa che “Le disposizioni della presente direttiva relative ai regimi di autorizzazione dovrebbero riguardare i casi in cui l’accesso ad un’attività di servizio o il suo esercizio da parte di operatori richieda la decisione di un’autorità competente. Ciò non riguarda … la conclusione di contratti da parte delle autorità competenti per la prestazione di un servizio particolare, che è disciplinata dalle norme sugli appalti pubblici…”, tra cui come è noto rientra latamente anche la Direttiva 2014/23.
In breve, e molto semplicemente e linearmente, contratti che non sono concessioni di servizi ai sensi della Direttiva del 2014 possono esserlo ai sensi della Direttiva Bolkestein del 2006, e viceversa. Ne viene che la tesi, basata su un mero inciso incidentale fatto a tutt’altri fini, secondo cui la sentenza OL del 16 marzo 2023 richiamando i casi di esclusione di “taluni accordi” diversi dalle concessioni di servizi pubblici di cui alla Direttiva 2014/23 (e la cui natura è tutta da vedere) anticiperebbe in qualsiasi modo una decisione riguardante l’applicazione o meno a siffatti accordi anche della Direttiva 2006/123 sui servizi imprenditoriali nel mercato, nel migliore dei casi confonde, e nel peggiore strumentalizza, due piani di
discussione del tutto diversi e tra loro non interdipendenti.
In realtà il piano su cui si muove la sentenza Promoimpresa del 2016 non risulta minimamente scalfito dai contenuti della recente sentenza OL. Quest’ultima, richiamando al paragrafo 29 il considerando 15 della Direttiva 2014/23 si limita a ricordare, in negativo, la esclusione dall’ambito delle concessioni di servizio pubblico disciplinate da tale direttiva (e solo da tale ambito) di “taluni accordi” la cui natura ad altri fini è tutta da stabilire, e lì si ferma. Invece la sentenza Promoimpresa, occupandosi (diversamente dalla sentenza OL) specificamente delle concessioni demaniali marittime, le qualifica in positivo includendole
motivatamente nelle “autorizzazioni” in senso ampio disciplinate dalla Direttiva 2006/123 relativa ai servizi sul mercato, in quanto si tratta di concessioni “che mirano allo sfruttamento di un’area demaniale a fini turistico-ricreativi” e “possono quindi essere qualificate come <<autorizzazioni>> ai sensi delle disposizioni della direttiva 2006/123, in quanto costituiscono atti formali, qualunque sia la loro qualificazione nel diritto nazionale, che i prestatori devono ottenere dalle autorità nazionali al fine di potere esercitare la loro attività economica” (cfr. Paragrafi 40 e 41 sentenza Promoimpresa).
A chiusura e supporto, la Corte in quella sede aggiunge che “le concessioni vertono non su una prestazione di servizi determinata dall’ente aggiudicatore” (nel qual caso sarebbero concessioni di servizi pubblici soggette alla relativa disciplina, di cui tra l’altro alla Direttiva 2014/23) “bensì sull’autorizzazione a esercitare un’attività economica in un’area demaniale” (Paragrafo 47 sentenza Promoimpresa). E a controprova nel successivo paragrafo 48 viene fin da allora richiamato proprio il considerando 15 della Direttiva 2014/23 che esclude da tale Direttiva (e, si ripete, solo da questa) “taluni accordi” i quali
“non dovrebbero configurarsi come <<concessione di servizi>> ai sensi di tale direttiva”, ma che ben possono costituire – e anzi nel caso delle concessioni demaniali in concreto deciso dalla sentenza Promoimpresa effettivamente costituiscono – concessioni per l’esercizio di attività economica ai sensi della Direttiva 2006/123. E il paragrafo 29 della odierna sentenza OL, riprendendo il medesimo richiamo, conferma pienamente tale impostazione senza contraddirla.
Oltre tutto, che le concessioni demaniali marittime per fini turistico-ricreativi rientrino effettivamente nei “taluni accordi aventi ad oggetto il diritto di un operatore economico di gestire determinati beni o risorse pubblici, in regime di diritto privato o pubblico, come dei terreni, mediante i quali lo Stato fissa unicamente le condizioni generali d’uso dei beni o delle risorse” di cui al considerando 15 della direttiva 2014/23 richiamato dal Paragrafo 29 della sentenza OL, non viene affermato né da tale ultima sentenza, che si occupa di tutt’altro, né altrove, e sarebbe tutto da dimostrare. Invero, le caratteristiche specifiche di tali concessioni, costituenti non puri e semplici accordi negoziali ma formali atti amministrativi, e necessarie e funzionali allo sfruttamento economico dell’area demaniale e alla prestazione di servizi turistici retribuiti, in realtà sembrerebbero escluderlo. Ma anche se così non fosse, poco cambierebbe. Infatti, per quanto fin qui detto, quand’anche le concessioni in discorso fossero riconducibili ai suddetti “accordi” identificati dal considerando 15 della Direttiva 2014/23, ciò varrebbe ad eventualmente escluderle solo da tale direttiva sulle concessioni di servizi pubblici; ma, anche in virtù di quanto precisato al precedente
considerano 14 della stessa direttiva, non altresì dai “regimi di autorizzazione” di attività e servizi imprenditoriali disciplinati dalla Direttiva 2006/123. Su tale punto, la sentenza OL del 16 marzo 2023 non contiene né anticipazioni, né ripensamenti o revisioni.
In ultimo e a chiusura si torna su un altro dato essenziale, già anticipato sopra al punto 5 e su cui la odierna sentenza OL (Paragrafo 32) e la precedente sentenza Promoimpresa (Paragrafo 64) concordano e collimano perfettamente. Ovvero quello per cui in ogni caso “le autorità pubbliche, ove intendano attribuire una concessione che non rientra nell’ambito di applicazione delle direttive relative alle varie categorie di contratti pubblici, sono tenute a rispettare le norme fondamentali del Trattato FUE in generale e il principio di non discriminazione in particolare”.
Del resto, si tratta anzi tutto di principi risalenti e fondamentali dell’ordinamento nazionale, a prescindere da quello eurounitario. Infatti, che i contratti pubblici debbano essere preceduti da “pubblici incanti” costituisce principio basilare fin dal regio decreto 18.11.1923 n. 2440 (art. 3) e relativo regolamento di cui al regio decreto 23.5.1924 n. 827 (art. 37), se non da prima. Troppo spesso si dimentica che è ordinamento europeo ad avere ripreso dai preesistenti ordinamenti nazionali, non viceversa.
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Sono contento di rileggerla, Nikolaus.
Mancavano i suoi commenti tecnici sul tema e ne abbiamo bisogno ora più che mai.
Ricordatevi sempre che un cittadino italiano ha uguali obblighi di qualsiasi cittadino di altre nazioni europee.
Parità di condizioni